Molti adorano Jason Statham mentre a noi sono sempre sfuggite le sue qualità attoriali. Ma a dire il vero la rovina di una delle più grandi campagne della pubblicità non fu del tutto colpa sua.
La pubblicità, si sa è un mestiere pericoloso. Noi che la facciamo abbiamo anche provato a raccontarlo sulle pagine di Boomerissimo.
Molti degli spot che abbiamo visto nella storia sono dimenticabili, alcuni francamente orrendi. Sfogliando le pagine della storia dell’advertising non è difficile imbattersi in autentiche mostruosità, che è facile accusare di tutto: stupidità, propagazione di stereotipi, sessismo. La pubblicità, del resto, è lo specchio della società in ogni tempo. I suoi difetti escono persino amplificati dalla comunicazione commerciale.
Ma la pubblicità può cambiare il mondo
I nostri vizi, i nostri tic, la nostra pigrizia mentale, le mamme sempre col vassoio, o intente a lustrare il pavimento con gioia, le donne panterose che poco c’entrano con vernici e adesivi, i bambini sempre buoni, e tutto l’armamentario ideologico che è stato a volte giustamente fatto a pezzi da semiologi e sociologici, sono lì, da vedere.
Eppure la pubblicità è stata anche capace del suo opposto e nelle sue espressioni migliori ha rappresentato la voglia di cambiare, la libertà proprio da quegli stereotipi. O a volte il semplice trionfo dell’ironia e dell’intelligenza. Doti che in qualsiasi tempo e in qualsiasi contesto sociale sono sempre state piuttosto difficili da rendere mainstream. I momenti in cui c’è riuscita hanno dato ai creatori di spot, ai copywriter e agli art director la consapevolezza di fare qualcosa di importante, che non solo vende formaggini, o scatolette, o frullatori, ma a volte è capace di cambiare il mondo per il meglio.
Have a Break
Per noi, che siamo cresciuti nelle agenzie di pubblicità cercando di fare proprio questo, uno dei grandi modelli è sempre stata la campagna di Kit Kat. Un concetto semplice, elementare, come sono sempre i concetti migliori: “Have a Break” e infinite possibilità di combinazione, umoristiche, paradossali, ai limiti dell’assurdo, che hanno rappresentato uno dei momenti più alti della pubblicità e il sogno da realizzare per chiunque la faceva.
Gli esempi sarebbero tantissimi, e vi invitiamo a cercarli. Ma siccome consideriamo la pigrizia un diritto inalienabile, vi proponiamo almeno una nostra scelta: “Dancing Pandas”, del 1989. Uno spot in cui c’è tutto, soprattutto la presa per i fondelli del grande momento che stai vendendo: la pausa. Quante cose possono succedere durante la sospirata pausa con Kit Kat…
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Si sorride e si ammira una delle grandi doti della migliore pubblicità inglese di ogni tempo: la consapevolezza che per il consumatore la tua scatoletta, la tua birra, la tua barretta di cioccolata, non sono proprio la cosa più centrale del mondo. Sono un dettaglio, una distrazione da veri problemi essenziali. Ci vuole leggerezza. Se vuoi parlare con quella persona che guarda la Tv alle otto e mezza di sera (questo succedeva nel 1989), è meglio che sia leggero anche tu.
Devi uscire dal tunnel delle riunioni tormentose che hanno fatto diventare quella barretta e quella strategia la cosa più decisiva e fondamentale del mondo. Pochi ci sono riusciti così bene come gli autori di “Dancing Panda” e altri capolavori.
Dicevamo che la pubblicità è un mestiere pericoloso perché a volte, se sei un creativo molto bravo e molto importante, può capitare anche a te di ritrovarti tra le mani una campagna che ha fatto la storia come Kit Kat. E tocca a te inventarne il prossimo capitolo.
Una situazione pericolosa e drammatica, in cui sei sotto ai riflettori e tutti sono pronti ad ascoltarti. Sfortunatamente, prima di te ha appena finito il suo assolo un tipo come Charlie Parker. O ha appena cantato John Lennon.
Si sappia quindi che agli autori della campagna Kit Kat del 2003 va tutta la nostra comprensione professionale e umana. Resta il fatto che il risultato fu quello che fu.
“Not great, not terrible”
Non si sa bene chi abbia avuto l’idea di complicare le cose coinvolgendo nella campagna un testimonial. Sono soluzioni quick & dirty che tendono a semplificare i problemi facili ma complicano drammaticamente quelli difficili. Se poi il testimonial è Jason Statham, l’uomo del quale non è mai stata identificata una seconda espressione oltre a quella “da Jason Statham”, le cose rischiano di diventare scivolosissime.
Nello spot (lo raccontiamo a chi non ha tutta quella confidenza con l’inglese parlato) Jason Statham siede in un caffè e vai a sapere perché, proprio lì, decide di intrattenere il pubblico con una menata degna di Licia Colò sulla vita faticosa e sulla cavalcata senza sosta che i salmoni devono fare per tornare dalle loro località marine di permanenza al torrente di montagna dove sono nati, per deporre le uova che daranno origine a una nuova generazione di salmoni (a meno che i salmoni siano allevati, che è un altro paio di maniche).
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Alla fine dell’inspiegabile documentario a tavolino, Statham conclude con “you are not a salmon”. Il che dovrebbe condurre trionfalmente al packshot e al claim (o slogan, per chi mastica meno di tecnica pubblicitaria): “have a break / fai una pausa”.
Alla ricerca del lato positivo
Ok, abbiamo visto di peggio, e talvolta anche a cura dello stesso Statham, come vi mostriamo qui. Ma anche abbondantemente di meglio. Pieni di comprensione per le difficoltà dei creativi che nel 2003 si trovarono in mano questa patata bollente, siamo andati a cercarci le critiche positive a questo spot. Emerge che Statham fu tenuto sotto contratto per altri due anni, il che fa supporre che il cliente sia stato soddisfatto dello spot, e questo fa piacere.
Di awards (o premi) di cui la pubblicità è diventata generosissima pur di mollare qualche statuetta a tutti (al festival di Cannes, ed è solo uno dei tanti, le categorie sono 628, per oltre 2000 leoni distribuiti) non abbiamo trovato traccia, e può essere un limite nostro. Tra le critiche positive, la più rilevante pare essere quella di un certo Venkata Pradyumna Rallapalli su Linkedin, che ha descritto il commercial come “incredible”, lodando la performance di Statham. Non ci risulta altro.
“Not great, not terrible”, si potrebbe provare a dire con understatement britannico. E questo è quanto.
Antonio Pintér
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