Il metoo della pubblicità: ci voleva, ma non si è capito niente. Vi raccontiamo cos’è davvero, perché ci siamo arrivati e come possiamo uscirne.
Ignoro volutamente l’aspetto più succoso e pruriginoso del #metoo della pubblicità: quello dello scandalo sessuale. Lo stigma morale per quello che si è scoperto è ovvio. Altro dovrà emergere: la solidarietà alle vittime è totale.
Quello che è meno ovvio, invece, è del tutto impossibile da discutere serenamente. Dunque non lo farò. Parlerò di soldi e di condizioni di lavoro, che è secondo me la questione vera.
Diamo dunque per acquisito, se volete, che il mondo delle agenzie di pubblicità sia una fogna di violenze e molestie sessiste. L’accendiamo. Osservo semplicemente che da quello che se ne sa, la cosa pare sia vera anche nelle aziende di pulizie, in banche, assicurazioni, nei gruppi parlamentari, nelle redazioni, qualcuno dice anche nelle parrocchie. Il che quantomeno dovrebbe indurre a una certa prudenza nell’imputare il problema all’eccesso di informalità e all’ “ambiente creativo”, come ho letto fare da Stefano Lombardini su Linkedin. Trasformare un reparto creativo in una squadra di impiegati, di camerieri, di operatori ecologici o portaborse non risolverà nessun problema, dal punto di vista sessista.
Capisco l’entusiasmo partecipativo al grande scandalo del momento, ma occorrerà pensare qualcosa di meno autocentrato. Noi creativi non abbiamo, almeno da questo punto di vista, proprio nulla di eccezionale. Cravatta, grisaglia e cerimoniale non sono l’antidoto. Amen.
Parliamo di soldi, condizioni di lavoro, cultura. Perché il vero problema è lì.
Le agenzie di pubblicità erano accademie di boxe
La pubblicità non è sempre stata il girone infernale di cui si discute oggi, purtroppo con scarsi risultati.
Non ho mai particolarmente amato la pomposità autocelebrativa dei pubblicitari. Fatto sta che la pubblicità della sua epoca d’oro è stata (anche) un formidabile ascensore sociale, che ha portato ad emergere gente che aveva talento e voglia di lottare ma nessun santo in paradiso. Una rara eccezione in un paese familistico e paramafioso come l’Italia. Con un po’ di fortuna potevi entrare in agenzia e fare la tua strada senza essere figlio di nessuno, armato solo del tuo talento, delle tue idee e di tantissima voglia di farti il mazzo in un ambiente esaltante, che dava molto, oltre a chiedere molto.
Il mio primo mentore, direttore creativo, capo e poi socio Marco Mignani, pensava che la pubblicità fosse una forma, per quanto minore, di arte. Non ne sono sicuro. Era però un concentrato dei migliori e più imprevedibili cervelli di ogni generazione. Era centrale culturalmente, indicava (o almeno così si credeva) la strada. Era il mainstream, molto spesso. Ma anche, nelle sue espressioni migliori, la mente critica di un paese. Le idee che ci nascevano erano importanti, segnavano il territorio.
La grande agenzia di pubblicità era una palestra di boxe. Che non è uno sport per tutti. Per vincere lottavi come un leone, e i pugni non ti facevano male perché eri lì per quello. E poi ci giravano molti soldi: nemmeno ai gradini più bassi si faceva la fame. Le agenzie crescevano. Se la tua non ti piaceva, te ne andavi da un’altra parte e provavi a crescere anche tu.
Non a tutti doveva piacere: era un mondo selettivo e competitivo. Per arrivare al grande annuncio, al grande manifesto, al grande spot (semmai ci arrivavi) ti facevi veramente il culo. Gli amici, la famiglia, si chiedevano dov’eri sparito. Non ci credevano che stessi lavorando davvero. Ma se eri fatto per stare su quel ring e se avevi quel sogno, farlo era esaltante.
Ho letto affermazioni veramente stupide a commento della (bellissima, per chi la sa leggere) intervista di Giampietro Vigorelli: un uomo che questo ascensore l’ha preso partendo dal piano seminterrato ed arrivando decisamente in alto. Ha creato orrore, in particolare, una sua dichiarazione: lui diffidava di quelli che stavano troppo bene di famiglia e assumeva subito la gente “se aveva qualche problema”. Gli indignados non hanno capito che Vigorelli cercava gente come lui, che veniva dal niente, con il fuoco dentro e con il coltello tra i denti. Non per sfruttarla ma perché diventasse Giampietro Vigorelli.
Ma il punto vero è che diventare Giampietro Vigorelli o Lele Panzeri allora era possibile. Era come salire sul ring, fare 15 riprese, provare a vincere il mondiale. Meraviglioso, grandioso. E durissimo: se eri nato in Via Vincenzo Monti, se “legavi il cane con la luganega”, probabilmente avevi cose più gratificanti da fare. I figli degli ambasciatori hanno strade più comode: questo è il punto.
Guardare a quelle accademie di boxe con gli occhi di chi lavora alla frusta in uno sweatshop è la ragione per cui non se ne capisce nulla, e si scrivono castronerie imbarazzanti e offensive nei commenti di Linkedin.
Come siamo finiti a cucire palloni
Lasciamo perdere le elucubrazioni in gramelot professionale. Per ridurre la faccenda alla questione essenziale, un brutto giorno, che potremmo collocare all’inizio degli anni ‘90, in pubblicità sono finiti i soldi.
Cambiò tutto in pochissimo tempo. I dipendenti delle agenzie cominciarono a finire sulla strada, a centinaia. Fallì (o quasi) anche l’agenzia francese di Séguéla, l’agenzia più agenzia degli anni ‘80: che poi era quella in cui lavoravo io. Fusioni affannose, ristrutturazioni, colossi che sparivano. Da allora non si lotta per crescere, ma per sopravvivere.
Se prima erano i clienti a chiedere il privilegio di lavorare con te, ora era l’agenzia che doveva strappargli l’elemosina. Per qualche ragione che economisti e scenaristi sapranno spiegare meglio di me, i clienti smisero di pagare e da allora vogliono pagare sempre meno. Le agenzie fallirono oppure scelsero l’affannosa ricerca del graal: il taglio totale dei costi.
Sempre più, e da decenni, i clienti pagano fee da sweatshop, fanno gare aperte per un tozzo di pane, a cui partecipano 32 agenzie, dove 31 buttano settimane o mesi di lavoro, una incassa il sospirato tozzo. Non credo ci sia da stupirsi se dentro le mura delle agenzie ci sono galere di schiavi.
In più occorre anche “stare sul mercato” e “mostrare l’eccellenza creativa”. In cima alle 60 ore di lavoro settimanale poco o non pagato, tocca pure inventarsi geniali “campagne proactive” (wow!) cioè che non usciranno mai, o usciranno per finta, tanto per partecipare a un festival. Ci sono direttori creativi che non si occupano di altro, e se ne occupano dicendo “ragazzi giovedì portatemi qualcosa”, poi scelgono. Se non mostrano “eccellenza creativa” questi direttori creativi cocoprò si cacciano e se ne prende un altro, forte di un’altra bacheca di premi finti, e altrettanto illuminante e produttivo di idee.
In molte grandi agenzie di pubblicità non c’è più niente, salvo qualche dirigente sopravvissuto ai tagli. Generalmente perché era il peggiore e quindi il più paraculo di tutti. Loro riescono ancora a pagarsi lo stipendio. I reparti creativi sono perlopiù galere di dannati mobbizzati in stage, e junior poco o nulla pagati, che stanno lì finché non gli si accende la lampadina. Con orari impossibili, nessuna guida, nessuna cultura del lavoro.
Perché ci stanno? Un grande mistero. La mia risposta è che in questo tempo la pubblicità ha smesso di essere un ascensore sociale. Se hai poco e devi pagarti l’affitto capisci subito che la pubblicità non è il lavoro per te. Ma qui vengono in soccorso le accademie di comunicazione. A mio parere (piuttosto informato) non servono a una beata cippa per insegnarti a lavorare, quantomeno come creativo. Ma questo è discutibile. Servono invece sicuramente a molto per selezionare le ondate di carne da cannone: sono scuole che costano moltissimo e come pregio principale hanno quello di avviarti a una carriera di stage. Se le fai (salvo rare eccezioni) vieni da una famiglia che può permettersi di avere un figlio che costa molto e non guadagnerà mai.
In agenzia, quantomeno, smetterà di costare. A un certo punto si renderà conto che quello non è un lavoro. Si romperà, cadrà in burnout. Ma fino ad allora non ha un problema pressante per pagarsi affitto e bollette: ci pensano mamma e papà. La pubblicità di oggi ha bisogno di gente così: gente che porta in società il ruolo di “creativo” ma non costa niente o quasi all’azienda.
La pubblicità è diventata un ascensore sociale, ma a rovescio: prende ragazzi di discreti mezzi (che si indignano quando leggono che il Vigorelli di un tempo li voleva poveri e cazzuti) e li cala al livello di sottoproletario intellettuale pagato a noccioline.
Il #metoo della pubblicità nasce tutto qui. Non dalla “cultura tossica” della creatività, ma dalla mancanza di soldi, che si è trasformata in mancanza di cultura. Da agenzie che accettano di essere pagate dai clienti in modo immorale, per non chiudere subito. Da gente che accetta di essere pagata in modo immorale dalle agenzie, pur di illudersi, e illudere le famiglie, che sta facendo il creativo. Quel bellissimo lavoro per cui hanno pagato anni di rette inutili a scuole di cui perlopiù si poteva tranquillamente fare a meno.
Come si esce dallo sweatshop: just do it
Non credo che le agenzie di pubblicità torneranno mai a essere la palestra di Rocky. Ogni cosa ha il suo tempo e il tempo in cui la pubblicità era la luce che mostrava alla società la direzione (buona o cattiva che fosse), è finito e non è destinato a tornare. Non ci sono più sogni di gloria da inseguire, nessuno deve più prendere pugni in faccia per questo.
Un’ agenzia di pubblicità potrebbe però evolvere da sweatshop di dannati a fabbrichetta felice che prende contratti decenti e tratta decentemente chi ci lavora. Qualche esempio esiste. Ma per liberare gli schiavi della pubblicità c’è solo una strada: quella che ha sradicato gli sweatshop.
Prendersela con gli sweatshop è compito delle leggi e degli ispettorati del lavoro. Se lo stato nazionale non ci arriva da solo, le organizzazioni internazionali possono costringerlo. Occorre ispezionare e indagare il flusso di stagisti. Non su pressione dei sindacati (che come è noto nelle agenzie non ci sono, o quasi), ma su quella della legge. Questo è il lavoro di fondo, che si fa in Thailandia, in Bangladesh, in Pakistan. Prima o poi cercheremo di farlo pure in Italia.
Ma la caccia ai laboratori dei cucipalloni serve a ben poco se non si colpiscono i grandi marchi che hanno costruito un business sullo sfruttamento. Colpire Nike, non solo legalmente, ma con uno stigma sociale e di immagine ha fatto più per migliorare la vita dei lavoratori in India, Pakistan, Indonesia, che non mille ispezioni degli ispettori asiatici.
Un cliente che paga la pubblicità all’1%, che conduce gare insostenibili per le condizioni di vita di chi lavora, non è un cliente furbo e capace che sfrutta la migliore offerta sul mercato. È un aguzzino, come chi faceva cucire i palloni col suo marchio ai bambini di nove anni. E come quelli deve temere lo shitstorm, la catastrofe di Pr imminente.
Quando i clienti avranno paura dello scandalo che può arrivare dallo sfruttamento del lavoro della comunicazione, quando un contratto capestro con uno sweatshop della pubblicità sarà una bomba che può scoppiare in qualsiasi momento, allora, forse, questo parlare di #meetoo si starà muovendo nella direzione giusta.
Just do it.
Antonio Pintér
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