Che l’ameno festival della canzone italica sia in sé portatore di polemiche è un fatto. Che coinvolgano grandi personaggi anche. Alcune, nascoste nelle pieghe del tempo, sono decisamente succose.
Non sono una fan del Festival o Festivàl della canzone italiana, non me ne faccio un vanto, non è un atto di snobismo. Semplicemente lo evito, un po’ come tuonava un famoso spot “se lo conosci, lo eviti”.
Come ho avuto già modo di affermare sulle pagine pixelate di questa rivista, ho smesso di guardarlo nel 1984 e non me ne sono mai pentita, né ho provato il desiderio di recedere da questa mia decisione. Non è il solo programma che ho bannato dal mio apparecchio televisivo: condividono la medesima sorte i game show preserali, i reality, i finti buoni sentimenti, insomma quei programmi che, come definirebbe il protagonista dei libri di Robecchi, Claudio Monterossi, vengono fuori dalla “grande macchina della me**a”.
Nessun giudizio su chi li fa, tantomeno su chi li guarda, ivi compresa la mia mamma, che me li racconta giornalmente e puntualmente. Semplicemente, non interessano a me.
Sanremo
Ogni volta che si parla di Sanremo, di una cosa si è certi: si guadagna un nemico. Che se ne parli bene o male, finirai per scontentare qualcuno. Nulla è più divisivo delle canzonette. Crollate le barricate ideologiche, le contrapposizioni si sono spostate su altri temi. Ma si sa, su qualcosa bisogna pur litigare.
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Nato decisamente in sordina, Sanremo ha guadagnato negli anni sempre più attenzione. In principio fu Nilla Pizzi, anche perché a cantare erano in tre: venti canzoni per tre artisti, anzi quattro, Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano.
Verso la fine degli anni Cinquanta il festival decolla, le case discografiche premono per partecipare con i loro cantanti e sorge la necessità di una giuria autorevole per la selezione della canzoni.
Ogni limite ha una pazienza
Nel 1959, viene chiamato a presiedere la giuria della commissione incaricata a selezionare le canzoni il principe Antonio de Curtis, Totò. L’artista partenopeo più di qualcosa ne capisce. Ha scritto canzoni e da decenni è nell’ambiente dello spettacolo.
Totò ormai è quasi cieco, ma ha accettato di buon grado l’oneroso incarico, un incarico a titolo gratuito, perché il grande comico ha rifiutato il compenso di cinquantamila lire di allora a seduta. La commissione ascolta quattrocento canzoni (aiuto!) per arrivare a selezionarne venti. Dopo numerose scremature, si arriva alle votazioni finali. Restano ventisette canzoni. Una canzone Parole, viene bocciata dalla commissione, ma Totò non è d’accordo, non intende far pesare il suo ruolo, ma neanche farsi prevaricare. Insomma “parli come badi”. Dopo una seduta accesa, l’artista si alza e se ne va. Raggiunto in macchina dagli altri membri che lo pregano di rientrare, si rende conto che in realtà vogliono che firmi il verbale di una decisione sulla quale dissentiva in toto.
A questo punto la decisione di dimettersi dalla carica diventa irrevocabile. Come ha modo di spiegare al settimanale Oggi, l’artista afferma: “… mi rifiuto di ammettere che il presidente di una commissione come quella del Festival possa essere considerato una figura decorativa o, peggio ancora, un fantoccio. E, soprattutto, non ammetto che la parte del fantoccio tocchi a me.”
Aggiunge anche che ha accettato l’incarico nonostante il parere sfavorevole dei medici che gli avevano prescritto assoluto riposo.
Ma Totò, modestamente, era una persona seria.
Antonietta Terraglia
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